Elisa Palazzi è ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche e docente di Fisica del Clima all’Università degli Studi di Torino. La sua ricerca è incentrata sullo studio dei cambiamenti climatici e dei loro impatti nelle regioni di montagna. Si occupa in particolare di alcuni aspetti del ciclo dell’acqua, come la pioggia e la neve, osservando come si stanno trasformando in risposta all’aumento globale della temperatura.
«La montagna è un punto caldo, un hotspot climatico, sia perché sta sperimentando un aumento di temperatura molto maggiore, addirittura doppio, rispetto a quello medio globale, sia perché in montagna sono particolarmente visibili gli effetti che questo surriscaldamento sta generando. Noi ci accorgiamo di questa amplificazione perché la misuriamo, ma anche se non avessimo a disposizione tutti i dati che abbiamo sull’aumento di temperatura in queste aree, ce ne accorgeremmo comunque, perché la montagna è anche un incredibile sensore naturale, cioè ci fa toccare con mano gli effetti di questo surriscaldamento».
Gli indicatori del surriscaldamento
L’indicatore più facilmente percepibile da chiunque è la fusione dei ghiacciai, la diminuzione del volume di ghiaccio presente sulle nostre montagne, accompagnata da una forte diminuzione della neve. Non solo nevica di meno a favore della pioggia, anche alle quote più elevate, ma rimane anche meno neve al suolo, perché si scioglie più in fretta che in passato. È inoltre chiaramente visibile un’intensificazione degli “estremi idrologici e climatici” (ovvero degli eventi “estremi” come nevicate intense e piogge torrenziali), che nelle zone montane vengono ulteriormente amplificati. In montagna sono ormai frequenti le cosiddette “alluvioni lampo” che in poco tempo fanno ingrossare i torrenti, ma anche i periodi di siccità che, quando sono prolungati, possono favorire la propagazione degli incendi, dato che nelle regioni montane sono presenti la maggior parte delle foreste italiane. Infine, un altro indicatore è l’accelerata diminuzione della biodiversità, che forse è un effetto meno evidente alla maggior parte di noi, ma non per questo meno tangibile o meno pericoloso: il buon funzionamento di un ecosistema è intrinsecamente legato al mantenimento della sua biodiversità.
È tutto interconnesso
Si potrebbe pensare che tutto ciò non riguardi le città, ma: «Ciò che accade in montagna– spiega Elisa – non resta confinato in montagna. Tutto è interconnesso da una rete che unisce tutti i sistemi sulla terra, e ciò che agisce, nel bene e nel male, sugli ecosistemi montani, si ripercuote inevitabilmente altrove». Così, se il ghiaccio e la neve delle montagne, che sono da sempre definite le “torri d’acqua” delle regioni di pianura, continuano a diminuire, si corre il rischio che le riserve idriche non siano più sufficienti per sostenere il fabbisogno per l’uso agricolo, potabile ed energetico delle aree montane e delle pianure.
«Le regioni di pianura, infatti, sono le prime a usufruire di tantissimi servizi che le montagne gratuitamente erogano. Alcuni sono servizi essenziali come l’acqua, l’aria pura e alcune materie prime (ad esempio il legname). Altri sono servizi regolatori, come la protezione che i boschi delle montagne, laddove siano ben tenuti, forniscono a fronte di una frana o di un evento di precipitazione intensa. Infine, la grande varietà dei servizi per la cura ricreazionale della persona che il paesaggio montano offre, come la sciata in inverno o l’escursione estiva. Tutto ciò rischia di essere compromesso dal surriscaldamento e dalla perdita di biodiversità. Come si accennava prima, l’ecosistema montano funziona bene solo quando le specie che lo abitano non sono costrette a spostarsi nelle sommità per l’aumento di temperatura, andando a scontrarsi con quelle che sono già in vetta, le quali non possono fare altro che estinguersi perché non hanno un altro posto dove andare. Dobbiamo dunque fare attenzione a non a rovinare questi ecosistemi perché continuino a donarci questi servizi e a farci del bene».
Le nostre possibilità di azione
Quindi che cosa possiamo fare noi come singoli cittadini, ma anche come istituzioni e comunità, per la crisi climatica in generale, che abbiamo visto riflettersi in modo particolare in montagna?
In primo luogo dobbiamo agire sulla mitigazione e affrontare la crisi climatica a partire dalle cause che l’hanno generata. Agire cioè sull’aumento di temperatura media globale, amplificato in montagna, che è essenzialmente dovuto all’aumento della concentrazione in atmosfera di alcuni gas a effetto serra. Questi derivano per la maggior parte dalle attività umane, prime fra tutte la produzione di energia da fonti fossili, seguita dai significativi cambiamenti nell’uso del suolo, inclusa la deforestazione. Dunque è innanzitutto fondamentale “decarbonizzare” le nostre società, cercando di produrre energia da fonti sostenibili e aumentando l’efficienza energetica.
In secondo luogo dobbiamo agire sull’adattamento locale, ovvero sul modo di vivere la montagna. La tecnologia, che si sta inevitabilmente evolvendo in una direzione più sostenibile e più efficiente, sarà di essenziale aiuto in questo processo di decarbonizzazione in contrasto al cambiamento climatico.
«In sintesi – riassume Elisa – attenzione alla mitigazione e alle nuove possibilità che le tecnologie ci offrono, ma senza dimenticare mai la curiosità, la conoscenza e la connessione empatica con l’ambiente che ci circonda, che è ciò che alla fine ci sostiene nella vita. Conoscere è il primo passo per agire: i cambiamenti climatici si combattono innanzitutto conoscendoli, e di conseguenza conoscendo l’ambiente montano e i suoi mutamenti».
Come vengono divulgati questi temi?
Parlando proprio di conoscenza e divulgazione, il 27 agosto 2020 Elisa Palazzi ha partecipato all’evento di apertura dell’“UNA Festival” che si è svolto a Ostana, ai piedi del Monviso. «L’idea alla base di questo evento è la sinergia tra Uomo, Natura e Arte, che esprime esattamente il senso che intendo quando parlo di divulgazione di questi temi. Quando il linguaggio della scienza incontra quello dell’arte, della musica e della parola scritta, viene sempre fuori qualcosa di bello, perché è solo con questa interazione che si può instaurare un contatto empatico, un canale di comunicazione che accorci la distanza che si viene spesso a creare tra la scienza e tutto il resto del mondo. Forse ormai né i numeri o i grafici che illustrano il riscaldamento globale, né le immagini dell’orso polare che naviga sull’ultimo pezzo di ghiaccio rimasto, sono strumenti adatti a far scattare quella reazione emotiva che è fondamentale per farci capire quanto in realtà queste cose ci tocchino e ci possano condizionare l’esistenza futura». Ultimamente la comunità scientifica si è impegnata molto più che in passato, anche sulla scia delle sollecitazioni di movimenti come Fridays For Future, ed è un bene che gli scienziati si stiano impegnando a far nascere dei nuovi linguaggi che li aiutino nella divulgazione e nella sensibilizzazione.
Conclude Elisa: «Se dovessi scegliere un solo libro da consigliare sul tema, proporrei La Terra Inabitabile di David Wallace Wells che, a dispetto del titolo un po’ terrificante, tira fuori l’invito all’azione, ponendo l’attenzione sul fatto che abbiamo in mano tutti gli strumenti necessari per fare quello che la scienza ci suggerisce per affrontare questa crisi, tenendo ben presente che i nostri comportamenti contano e possono innescare delle scelte politiche collettive determinanti. Quindi, nonostante tutto, possiamo ancora farcela».
Arianna Zatti
Leave a Comment
sing in to post your comment or sign-up if you dont have any account.